lunedì 5 ottobre 2020

Il Santo più folle: Francesco

Nella notte tra il 3 e il 4 ottobre 1226 moriva uno degli uomini più grandi di tutti i tempi.

Intra Tupino e l’acqua che discende
Del colle eletto del beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma , Orïente se proprio dir vuole.
(Dante, Paradiso, XI, vv. 43-54)
Così l’Altissimo Poeta pochi decenni dopo la morte del Santo oggi più venerato e popolare del mondo, dell’iniziatore della tradizione letteraria italiana con il Cantico delle creature, del Patrono d’Italia, del primo uomo ad avere le stigmate. Nel canto francescano, “glorïosamente accolto” da Beatrice, Dante trova il suo definitivo messaggio di salvezza. Qui egli ci dice che ha superato le miserie del mondo e ha raggiunto la saggezza e la verità di Dio con l’amore, con la povertà, con l’abbandono della vanità delle cose terrene, dell’odio e del rancore. 

Amare vuol dire abbandonare l’odio, e questo si può ottenere solo con il perdono, con il dimenticare. Gli uomini cambiano, cambia Dante con il suo straordinario viaggio, chi non dimentica non perdona e non ama. Perdonare non significa cancellare il peccato, che peccato rimane agli occhi di Dio, ma assolvere la debolezza umana, il peccatore. Chi non perdona è un uomo già perduto. E per questo ancora misterioso appare il silenzio di Wolfgang Goethe, che, nel suo Viaggio in Italia, non fece parola del Santo, canonizzato ad appena due anni dalla sua morte, nel 1228. Forse il grande Tedesco aveva voluto visitare Assisi solo per ammirarvi lo splendido e intatto tempio di Minerva, lui che si interessava solo della classicità, forse era troppo luterano per interessarsi ai santi. O forse, più semplicemente, il poeta del Faust era stordito da una città che già allora dovette sembrare sospesa tra cielo e terra, che cominciava ad ammantare di mistero e di un’aria neomedievale il suo più grande figlio. Il mistero. Il mistero fu, insieme con la certezza della santità, ciò che affascinò i primi seguaci del Poverello di Assisi. “Perché a te, perché a te, perché a te?”, leggiamo, nei Fioretti, le parole di Frate Masseo da Marignano. “Dico, perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile: onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?”

Il mistero. Ci sono uomini che dopo secoli o millenni vengono sulla Terra per salvare l’umanità, tra questi furono Buddha, Milarepa per i buddisti, tra questi furono Gesù, San Francesco novello Cristo, che salvò la Chiesa e dunque l’Occidente. Seguire loro significa seguire un percorso non solo di santità, ma di umanità. E anche di follia, perché solo la follia consente il balzo che fa saltare il fosso. Ed anche questo è un mistero. È lo stesso mistero che sente di avere dentro il figlio di Pietro Bernardone, il mistero di una elezione divina che fa di un umile uomo lo strumento per cambiare il mondo. “Il Signore mi ha rivelato che la sua volontà era che io fossi un tipo del tutto nuovo di pazzo nel mondo, questa è la scienza alla quale Dio vuole che ci dedichiamo”.

La follia. Solo con la follia si trasforma il tempo, e di questa follia del Cristianesimo l’uomo di Assisi era ben consapevole. Francesco sa di essere l’uomo nuovo, l’eretico che deve salvare la Chiesa e l’Occidente. Francesco è l’uomo nuovo perché compie una rivoluzione. Egli fonda un nuovo tempo, dopo di lui il tempo non sarà più lo stesso. Egli fonda il tempo della fede, della gioia, della povertà evangelica. È il tempo del perdono e della compassione, dell’elemosina, della solidarietà, della fraternità, dell’umiltà, il tempo dell’amore per tutte le cose create. Egli è tutto: fondatore di un ordine, missionario itinerante, egli è poeta e profeta, il mistico, l’asceta, l’eremita, il Salvatore della Chiesa e dell’Occidente. Egli è l’uomo che ha constatato il male su sé stesso e ne è uscito. Egli è l’uomo totale.

Egli è così grande che solo dopo 800 anni un papa ha avuto il coraggio di prendere il suo nome. Di quest’uomo ho letto decine di libri, a quest’uomo ho dedicato un dialogo in un mio libro, è uno dei personaggi storici che conosco meglio. Ho fatto un voto, quello di andare ogni anno ad Assisi per inebriarmi della sua umanità, del suo percorso di vita. Ed ogni volta che vado ad Assisi è come una rivelazione. Vado ogni anno nella città del Subasio per voto (e l’omonimia non c’entra niente), ma anche per desiderio di lontananza e di solitudine, anche se le lontananze e le solitudini – sostiene Seneca – le portiamo sempre dentro di noi, condizione senza la quale non è possibile creare lo spazio per Dio, Deus intus est. Passeggiando per le vie ora solitarie ora affollate di Assisi, comprendo che la bellezza – e la grandezza - di questa città non è in un affresco di Giotto o di Cimabue, non è nella Basilica di San Francesco o nella chiesa di Santa Chiara, non è nell’Eremo delle Carceri o nella chiesa di San Damiano.

La bellezza di Assisi non è nei monasteri o nella Porziuncola, non è in questa o in quella reliquia, nel saio rattoppato del Santo o nelle vesti consunte di Chiara, non è nel cilizio spinoso, no; non è nemmeno nella sterminata agiografia su San Francesco, il più italiano dei santi e il più santo degli italiani, il più grande degli italiani, l’uomo che ha salvato la Chiesa e dunque l’Occidente, il più grande degli europei. La bellezza di Assisi è in tutto questo, ma soprattutto in quello che viene prima e dopo - è nell’aria, nel Fratello Sole e nella Sorella Luna, nel sentimento della Morte corporale e della Resurrezione, è negli ulivi di pace, nei boschi, nelle verdi colline, nella valle ora brumosa del mattino ora tremolante nel meriggio. Passeggiando solitario per i boschi e le vie quasi deserte della periferia di Assisi, lontano dalle vie centrali dense di turismo internazionale – tuttavia composto e ordinato, mai volgare, nonostante i panini con la porchetta e le pizzette al taglio –, lontano dall’albergo pieno di turisti italiani e stranieri, vocianti, allegri ma educati, penso sempre che solo in questa terra potevano nascere tutti questi santi. Penso che forse solo in Umbria è possibile il contatto mistico con Dio. Le stigmate, la sofferenza, la gioia di vivere, la discesa del Bambinello, il Presepe, il Cristo in croce sono nati qui, qui si conferma e rinasce il Cristianesimo moderno.

Assisi è veramente un luogo che può aiutare a trovare la pace. Francesco ci insegna ad amare tutte le creature del mondo, ci insegna a cercare sempre la verità ma anche a perdonare, qualsiasi cosa sia questa verità, e probabilmente è questa la rivelazione che io colgo ogni anno. Francesco ci insegna, sì, a disprezzare il corpo, a prenderne distacco, ma ci insegna soprattutto ad amare, a vivere con gioia, ad essere messaggeri della verità, a calarci nella follia del Cristianesimo. Francesco muore nudo e povero sulla nuda terra, piccolo, indifeso, semplice. Muore cantando. È come Cristo e – nella morte - forse migliore di Cristo, perché non ha il dubbio e l’angoscia di Cristo nella croce, perché egli ha la verità che Cristo in croce non aveva. Come e più di tutti i grandi profeti e santi mistici orientali - Krishna, Buddha, Maometto, Milarepa - egli ci insegna l’amore per i poveri e la compassione per gli animali, nel nome di quel Dio che è voluto nascere povero in una mangiatoia e morire nudo e piagato, solo, in croce. Egli ci insegna a salvare noi stessi e a salvare il mondo. Sono stati scritti migliaia di libri sul Poverello di Assisi, ma non basta leggere decine di libri per comprendere il suo messaggio. Come e più di Gerusalemme, La Mecca, Lumbini o Betlemme, Assisi è un luogo che va visitato almeno una volta nella vita. Soli. Soli e solo col contatto di questa terra scarna ed estrema si perviene alla conoscenza del mistero della santità. Francesco, benestante borghese, come Buddha, incarnazione avatara come Krishna della Divinità, profeta fondatore di religione come Maometto, novello Cristo che si sacrifica per l’umanità, venne subito a conoscenza del dolore, della guerra, del disagio e dell’inquietudine, della malattia e della morte, e delle strade piene di lebbrosi, dell’infame atroce spettacolo della peste. Ma la salvezza giunge sempre nei territori ultimi e desolati, nelle smisurate solitudini e nelle estreme lontananze, nei deserti, nei territori della lussuria e dell’egoismo, dell’emarginazione, del peccato, luoghi perfetti dove - con il lezzo nauseabondo di stracci infetti, o col profumo celeste di questa rosa sulla mia finestra - può nascere il Santo.

Francesco Bellanti

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